Sal, è cosa nota, sarebbe un pacifico per natura seppur con una dose non irrilevante di testardaggine per cui a volte prende, come si suole dire, fischi per fiaschi con l’accucchiu di tante di quelle malafiura che per contarle, soprattutto da quando è sindaco, ci vorrebbe un pallottoliere del tipo che soleva usare Mike Bongiorno in quel gioco in cui si cantava in coro “Domenica è sempre domenica”. Ma quella del 31 rimarrà alla storia. Alle 23,50, e dunque molto prima che partissero i colorati e rumorosi tric-trac che dovevano essere sparati in piazza Duomo per accogliere il nuovo anno, da dietro la fontana ottu cannola partirono una serie di pernacchie in direzione di quei quattro gatti che mestamente stazionavano davanti e dietro un tavolo posto al centro piazza in attesa dell’evento. Facce nere, volti tirati, spaesati dentro una piazza vuota che diventava sempre più enorme e loro sempre più piccoli. Accanto al tavolo, ma a debita distanza, la benevole quanto imbarazzata presenza di quattro rappresentanti delle forze dell’ordine che avrebbero dovuto, nelle intenzioni, vigilare su di una piazza che si sperava piena ad uovo. Alla vista della telecamera di Pinuzzu, fecero i disinvolti voltando le spalle per non farsi immortalare e restare quali quasi soli testimoni di un flop, ma di flop così flop che più flop non si può. Dietro il tavolo e con le spalle rivolte al palco Sal, non da solo (ma chi glielo fece fare gentilissima signora!) e poi Bart che, mesto, aveva già partecipato in prima serata al concerto di fine anno in una chiesa locale e collocato a casciuni in prima fila. Solo soletto era, e per di più, con l’ingrata compagnia di un Vincenzone che a queste cerimonie non manca mai convinto che il suo ruolo sia oramai quello di presenziare come ha sempre fatto il suo maestro prezzemolino che da quando, però, è ritornato all’opposizione, scacau comu na’ strummula. Bart ausiliato dù figghiu di Mimiddu facchinedda, notoriamente presente con tutta la numerosa prole unni si mancia a sbafo e che doveva dare il via allo stappo al momento propizio, aveva un volto tirato e bianco come se un colata di cerone l'avesse investito. Sul tavolo alcune bottiglie di spumante siciliano i cui tappi dovevano esplodere in contemporanea proprio alle 12 in punto al grido e in coro di “‘a facci di puvureddi e di cunni voli mali” a significare il raggiungimento dell’apoteosi e alla presenza - aveva assicurato Bart nell’invitare i cittadini alla partecipazione usando le solite parole mammalucchine di circostanza - di un popolo osannante che per essere presente avrebbe sfidato, il tempo, le consuetudini, le pernacchie, i trunza di vrocculi, e perfino il malocchio di quei quattro che in Consiglio spadaccinavano a destra e a manca senza dare tregua sbaragliando, sistematicamente, il caravanserraglio di una maggioranza che si squaglia ai primi trona, come neve al sole. Quello stesso popolo che avrebbe dovuto precipitarsi in piazza per una gratuita sbafatoria dimenticando i guai dù linu dovuti a tasse e balzelli a tinchitè che Sal, con la complicità di Lui, Lei, Lei e gli Altri, e con l'ausilio della Serit sucasangu aveva distribuito a piene mani alla faccia del cacio cavallo e che si chiamavano: bollette da munnizza, caterva di euro da pagare come arretrati di un decennio di acqua, bollo auto e assicurazione macchina, luce, gas, canone tivvù e perfino la nuova imposta denominata “a produzione du’ fumu da cannila”, ultima trovata dell’Allegra Brigata con lo scopo di fare cassa e pagare arretrati, ammennicoli, assunzioni, integrazioni, avanzamenti di carriera, cambi di qualifica, straordinari, viaggi della speranza a Bruxelles e dintorni, debiti pregressi, debiti da contrarsi, acquisto di pannoloni per i dipendenti comunali già vicini alla pensione oltre che un meccano che, azionato, avrebbe fatto sentire la voce di Sal che dava il buongiorno ai “suoi” dipendenti, a Bart che rivolgendosi a Sal gli cantava “Oh main papa”, mentre Jhonny elencava, ringraziandoli, le mirabilia di quelli della manutenzione (Aspanu, Totò, Cicciu, Ninuzzu e Michilinu) e le strabilianti cose di cui erano capaci ora ma incapaci prima che arrivasse Lui. Dunque Sal veniva rassicurato che la cosa si poteva fare e che il popolo, dimenticando i guai quotidiani, sarebbe stato presente e in massa in piazza alla faccia di Renzuzzu e per mettere finalmente i partinicoti in linea con i vicini della città di PapaniaPapania, ScalaPapania, FerraraPapania, GucciardiPapania, perfino TuranoPapania e che Pinuzzu tiggej, alla faccia di pizzi e pizzetti e forse esagerando, aveva definito la Svizzera d’Italia durante la meteora Peppone che non ebbe neppure il tempo di assittarisi e nni squagghiau come dda cosa da’ zza’ Bittidda. Dunque, disse Bart, che tutto era a posto: il tavolo collocato, Facchinedda pronto, ’u parcu dove si sarebbero esibiti fino al sorgere del sole e durante tutta quella lunga, esaltante notte non solo Elton John, ma Bocelli e Laura Pausini, è cunsatu. Una strabiliante notte (altro che notte bianca!) doveva essere e restare nella memoria e che avrebbe dovuto sancire, dopo quasi due anni di duro lavoro, finalmente il ruolo di statista di Sal, di Bart quale coeforo, di Jhonny quale responsabile della protezione civile al posto di Bertolaso, di Nardo quale allenatore della squadra dei papanzichi ex dipendenti comunali quando avrebbe DI SUA SPONTANEA VOLONTA’ (curnutu a ccu’nun ci criri!) lasciato l’Assessorato prestigiosamente diretto fino a quel punto, mentre Kate momentaneamente assente (così come Antonellina dileguatasi forse fiutando la cosa) aveva inviato un telegramma da Rio con la scritta: ”Qui la festa è in pieno svolgimento, stop. Scambiata per hawaiana, ballo e ‘u menu cà pensu a vuatri, stop. Quasi quasi me la penso e non ritorno più, stop. Hasta la vista siempre, Kate.” Non si attese lo scoccare delle lancette della fatidica mezzanotte perché facchinedda ebbe l’ordine di stappare lo spumante, mentre due volontari diedero fuoco alle micce e gli ausiliari del traffico spegnevano il solitario semaforo che segna rosso stabile come le casse comunali. Mentre scoppiava il frastuono avvolta, però, paradossalmente dal mortale silenzio dell’assenza si sentirono dei ripetuti, prolungati guaiti che proveniva da dietro il palco. Nel tramestio si intravide, seppur nella penombra, una gamba distesa al cui piede colpiva a fondo e ripetutamente un deterano. Poi comparve lui che sembrava una furia scatenata, un vulcano in eruzione, un mare in tempesta e la chioma al vento. A suon di calci nel sedere e poderose scorce di collo scomparvero lui dietro e l’altro avanti nel buio della stradina attigua alla piazza che una volta portava all’albergo Pinetti con in coda lo zio Crispi che cù a runca mmanu inseguiva pure lui il malcapitato. La voce adirata era chiara: “Dimmi dov’è il mio popolo, dimmi dove sono le mie schiere di affezionati elettori. Quoque tu, Bart, mi tradisci? Io che ti ho strappato all’oblio, spuvulazzatu, sottratto dalle grinfie dei tuoi persecutori. E ora cu ccià porta stà notizia ad Antonello?” Furono le ultime parole che si udirono. Mentre i quattro militari si allontanavano alla chetichella, facchinedda racimolava due bottiglie e tre panettoncini e il gruppo dei giovani musicisti, dopo aver raccolto gli strumenti, si dileguò in direzione di Piazza Verdi. Dalla lontana Svizzera d’Italia arrivavano le note dell’Inno di Mameli e le grida di migliaia di cittadini osannanti che cantavano ritmando e scandendo le parole: “Gucciardi, Scala, Ferrara e Papania: vuatri siti ‘a sarvizza di' l’anima mia”.
Sala Rossa