Ero a scuola, alla media Archimede, quando mi riferirono dell’uccisione di Aldo Moro. Devo ammettere, a distanza di tanti anni, che alla notizia non provai alcuna particolare emozione anche se mi rendevo conto dell’enormità del fatto, dell’efferatezza del delitto, delle gravissime sue implicazioni di carattere politico. Bisogna comprendere, però, come allora tanti giovani militanti comunisti, com’io ero, nutrivano molti pesanti risentimenti nei confronti dei democristiani cui addebitavamo le sofferenze del nostro popolo, le disuguaglianze, la violazione dei diritti. “Comunista” significava, allora e almeno per me, non indulgere neppure nei confronti di chi veniva ucciso dal terrorismo, come Moro, o dalla mafia come fu, ad esempio, per il Sindaco di Palermo Insalaco nel gennaio del 1988. Erano nostri nemici e nei confronti dei nemici non si poteva provare neppure l’umana pietà. Poi in quel giorno, ma molto più tardi, seppi di Peppino. Un comunista “anomalo”, appartenente ad una generazione precedente alla mia, che insieme ad altri giovani costruivano però a Cinisi processi culturali di rottura contro il perbenismo dilagante e la classe politica dirigente di quella città e contro, anche, l’accondiscendenza di un PCI locale costruito su ambiguità, alla ricerca del governo a tutti i costi che per un comunista “anomalo” come me (provenivo dal mondo cattolico ed ero entrato nel PCI già abbastanza adulto) significava il tradimento dei nostri propositi, della nostra linea, del nostro rigoroso concepire la politica quale elemento totalizzante alla quale sacrificavamo anche buona parte della nostra vita privata. Per cui, paradossalmente io militante comunista e consigliere comunale del Partito, mi sentivo, allora, più vicino ai compagni di Democrazia Proletaria di Cinisi con i quali, tuttavia, non avevo mai avuto alcun contatto “politico” tranne quello di condividere la proposta di Gino Scasso di dare a Peppino alcuni pezzi, tra cui il trasmettitore di Radio Onda Libera, la radio che avevamo creato nel ’76 ma che a quell’epoca manifestava una grave, irreversibile crisi. Peppino costruiva, così, col nostro ausilio Radio Aut. D’altronde le iniziative di quanti eravamo dentro il Circolo culturale UNLA, erano sostanzialmente più similari alle iniziative di Peppino e dei suoi compagni che a quelle di un PCI i cui militanti locali delle prime ore avevano una formazione ancorata alle direttive del Partito, dunque assai ortodossi e per questo abbastanza privi di “fantasia politica”. Né potevo dimenticare come qualche giorno prima del suo assassinio ero stato a Cinisi dove l’onorevole Mimi Bacchi, tenne su di un palchetto sistemato lungo il Corso, un comizio elettorale a sostegno della lista del PCI di Cinisi ed, ovviamente, in contrasto e abbastanza critico con quella di Democrazia Proletaria che al PCI non lesinava polemiche anche feroci. L’assassinio di Peppino vide, allora, un PCI spaccato. Quelli che avevano condiviso fin da subito la versione del Peppino terrorista e dunque vittima di se stesso, del suo estremismo e della sua “follia politica” e quanti, assai pochi in verità, manifestavamo dubbi così come con la rabbia nel cuore lo gridavano fin da quel giorno, i compagni di Peppino. Ci sono voluti tanti anni, la tenacia dei compagni e della famiglia di Peppino contro il silenzio dello Stato, le compromissioni, le dilazioni perché si comprendessero fino in fondo le ragioni che avevano spinto la mafia di Cinisi, con la complicità morale di certa "politica" locale, ad eliminare in maniera così efferata un comunista, un rivoluzionario come Peppino Impastato.
Toti Costanzo
Nessun commento:
Posta un commento