venerdì 22 giugno 2012

PUBBLICHIAMO DAL BLOG DEL PROF. GIUSEPPE CASARRUBEA


La signora alcool e fumo

Antonina Bertolino fu Giuseppe
Antonina Bertolino fu Giuseppe
C’è una legge universale della chimica, scoperta più di due secoli fa, valida anche sul campo delle cose umane. Si regge su un’affermazione apparentemente ovvia. Nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Non sappiamo, però, se il chimico e filosofo parigino, che la elaborò,  pensò anche alle imprese degli uomini che, da piccole e irrilevanti, possono diventare, con l’avanzare del tempo, opere faraoniche. Anche queste non nascono dal nulla ma seguono un percorso di continuità generazionale, modificandosi nel tempo e diventando o strutture di sviluppo e di interesse collettivo nei territori in cui crescono, o mostri sempre più aggressivi. Tanto grande può essere la modificazione della loro consistenza.
In questa continuità, non sempre i figli assomigliano ai padri e sappiamo bene che i figli possono essere di tutt’altra pasta che i loro genitori. Anche se, in linea teorica, è scientificamente dimostrato che ciascuno di noi è quello che è stata l’evoluzione sua e del gruppo sociale nel quale si è formato. Salvo eccezioni.
Perciò, a chi volesse prendersi la briga di dare un’occhiata a simili – esistenti o no - divaricazioni, non è forse superfluo ricordare che Giuseppe Bertolino, classe 1902, aveva un notevole interesse per l’alcool. Non sappiamo da dove gli derivasse questo amore. Si era dovuto recare negli Stati Uniti, dove il fascismo aveva mandato il suo compaesano Francesco Paolo Coppola, alias “Frank Tre dita”, diventato uno dei più grandi trafficanti di droga del mondo, al pari del suo corregionale Lucky Luciano. Coppola era collegato con Diego Plaia, Salvatore Greco e Giuseppe Corso, quest’ultimo partinicese doc pure lui.
Gli interessi per l’alcool del Bertolino vengono ammessi, durante il procedimento penale a carico dei Magaddino di Castellammare del Golfo, negli anni ’60, quando Manlio Rizzoni nella sua veste di funzionario del Banco di Sicilia a New York, conobbe, tra il 1946 e il 1958, Calogero Orlando e, appunto, Giuseppe Bertolino “già soci nel commercio dell’alcool”. Ma questo potrebbe non significare nulla se attorno al fondatore di quella che sarà la più grande distilleria d’Europa, non girassero fior fiori di personaggi che hanno fatto la storia di Cosa Nostra nel secolo scorso.
Ad esempio, quando nel Natale del 1962 alcuni colpi di lupara freddarono nella piazza Principe di Camporeale, a Palermo, il boss Calcedonio Di Pisa, grande trafficante di droga tra la Sicilia e gli Usa, addosso gli fu trovato un taccuino nel quale risultava scritto il nome di Giuseppe Bertolino, già noto alla Guardia di Finanza perché in contatto, non sappiamo per quali motivi, con trafficanti di stupefacenti del calibro di Salvatore Zizzo.
Il salto di qualità nella nuova impresa del crimine organizzato in Sicilia, merito o demerito certamente non attribuibile al nostro benemerito concittadino, era stato determinato dall’ormai famoso convegno del 1957 a Palermo. A luglio il gangster americano Francesco Garofalo, alias Frank, legato alla mafia di Castellammare del Golfo, aveva anticipato tutti, fissando la sua dimora a Palermo e nel paese di Gaspare Magaddino e Diego Plaia, con i quali, nei viaggi da e per gli Stati Uniti, aveva avuto frequenti contatti. Al summit, tenutosi dal 12 al 16 ottobre di quell’anno all’hotel delle Palme, aveva partecipato il ghota della Cosa nostra siculo-americana, sotto lo scettro indiscusso di Salvatore Lucania, alias Lucky Luciano.
In quest’epoca altri italo-americani fanno la loro comparsa: Vincent Martinez, amico di Garofalo, Calogero Orlando, alias Charles, collegato alla mafia americana di Detroit, Frank Tre Dita e Giuseppe Bertolino  entrambi residenti negli Stati Uniti ed appartenenti all’organizzazione mafiosa di Giovanni Priziola, alias “Papa John”. Il boss Giovanni Bonventre, in particolare, arrestato in Italia nel luglio 1957,  si  stabilisce a New York dove dal 1923 al 1931, in pieno proibizionismo, fa il piazzista di vino e birra, “rifornendo – come leggiamo negli atti antimafia – le fabbriche clandestine di alcool di prodotti chimici utilizzati per la distillazione degli alcolici”. In America conosce Joe Bonanno, alias Bananas.
Giuseppe Bertolino, dal canto suo, gode di speciali rapporti con Calogero Orlando, magnate del commercio di alimentari in tutti gli Stati Uniti. I due si erano conosciuti, già dall’infanzia a Partinico, e si erano incontrati molte volte negli Usa, a Detroit fino al 1927, in Cleveland dal 1932 al 1934, e in Italia: una volta nel 1936, e molte altre volte nel dopoguerra, a  Palermo. Ma, stando alle dichiarazioni del boss Giuseppe Martinez i due vanno a trovarlo nella sua casa di Marsala anche nel 1930, dopo che egli ha conosciuto il Bertolino nel 1926 negli Stati Uniti.
Erano altri tempi, c’è da dire. Ed è giusto che ci chiediamo se quel passato triste per la Sicilia e i siciliani, sia stato riscattato allontanando le ombre che per qualcuno avrebbero potuto pesare sulla storia di una famiglia, che, stando alla sentenza di rinvio a giudizio (1966) di quei galantuomini alla ricerca di affari, non contempla tra gli imputati il nome di questo nostro paesano. Forse aveva i vizi e le virtù di tutti i siciliani. E non solo di loro. Ma il torto di Bertolino era forse quello di fare il moscone, di gironzolare attorno, di muoversi tra il dentro e il fuori. Come fanno oggi molte persone che possiamo considerare nella zona che Nando Dalla Chiesa chiama grigia.
Dopo mezzo secolo le cose sono cambiate. Meriterebbero un’ analisi attenta, perché qui si gioca, allora come ora, il rapporto tra la natura della borghesia locale e il  mondo produttivo. Tra vecchio sistema sociale e modernizzazione. E noi, senza volerla fare lunga, ci atteniamo agli ultimi episodi che riguardano questo rapporto tra il potere di un’impresa cresciuta in modo spregiudicato e i nostri concittadini che subiscono angherie da tempi ormai biblici.
Ed ecco il fatto odierno. Si stipula un atto tra la giunta di Salvo Lo Biundo e la signora Antonina Bertolino, figlia di Giuseppe. Sembrerebbe chiudersi un lungo capitolo di angherie subite da questo territorio martoriato. Un gesto di buona reciproca volontà. Lo ribadiscono anche oggi gli amministratori locali memori di una storia lunga e tormentata, costata lotte e querele a non pochi cittadini che con tenacia e coraggio si sono battuti perché il loro paese fosse vivibile, più civile e libero da soverchierie. Quelle di una imprenditrice capace di aggirarsi tra i meandri della legge e di farla franca persino contro le sentenze dei magistrati e dei tribunali amministrativi regionali.
Ne è prova, tra le tante, una sentenza del Tar arrivata già all’inizio degli anni ’90 quando i magistrati ordinarono la chiusura della fabbrica, sequestrando le scorie prodotte ritenute pericolose per la salute dei partinicesi. Fece scalpore questa sentenza perché consentiva la riapertura dell’azienda grazie a un depuratore solo immaginario che la signora avrebbe dovuto realizzare e impiantare. Ma che rimase invece allo stato onirico.
Il tema della convenzione sono le modalità e gli accordi della delocalizzazione della Bertolino spa. Tema che ha colpito almeno due generazioni di partinicesi che ormai nel loro Dna hanno incorporato l’ integrazione di un fattore estraneo del quale si sono abituati a sentire odori ed effetti come un male necessario e incurabile. E hanno sviluppato una profonda rassegnazione per via, forse, di certe parentele che lasciano sgomento e incertezza, come quella che vuole la signora essere la cognata di Angelo Siino, meglio noto come il ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra, poi pentitosi, folgorato sulla via di Damasco.
Il pessimismo dei partinicesi ha, dunque, molte cause. Antiche e attuali. Di quelle antiche ci darà una spiegazione la storia. Di quelle attuali, possiamo solo usare la nostra ragione.
La distilleria è classificata come industria insalubre di prima classe, e grazie all’espansione urbanistica degli ultimi cinquant’anni, non si trova più alla periferia del paese, come ai tempi in cui don Peppino la fece nascere, ma nel suo cuore, a pochi passi da una bella villa comunale, oggi in stato di degrado e abbandono, e dal nucleo storico delle case del quartiere di San Paolino. Oggi vi sorgono attorno quartieri popolari nuovi ed estesi, esercizi artigianali e commerciali di un certo rilievo, botteghe e persino un ipermercato. Che perciò qualcuno abbia pensato a delocalizzare questa impresa è cosa normale e doverosa. Tanto più che il tentativo ha una storia lunga.
Se ne parlò per la prima volta, credo, negli anni ’90, ai tempi della giunta di Gigia Cannizzo, e, siccome a Partinico si fa in un secolo quello che si dovrebbe fare in un mese, di recente, il 27 gennaio 2010, il consiglio comunale ha votato una mozione di indirizzo per la stipula di una trattativa destinata al trasferimento del nostro complesso industriale altrove. Il cittadino che in buona fede legge, resta rassicurato e contento. Ma noi abbiamo il dovere di dubitare. La mozione d’indirizzo infatti è vero che tratta del trasferimento di questa industria, ma la riferisce a un “medio e lungo termine” che, tradotto nel linguaggio antropologico locale, significa un tempo senza limiti. E cioè senza persone e senza azioni concrete.
Il 10 maggio 2012, quasi in sordina, il Comune di Partinico e il rappresentante della Bertolino, firmano una convenzione per mettere fine a una lunga storia. Ma si sente subito puzza di bruciato. Come se qualcuno le studiasse tutte accortamente nel silenzio notturno del suo studio, per non sbagliare. E’ raro leggere un documento così velleitario e mistificante. Le parti contraenti espongono solo intendimenti, e ciascuna fa la concorrenza all’altra quanto a fantasiosi buoni propositi. Lo scopo del bizantinismo è essere credibili e rendere appetibili le pattuizioni. Trasferendosi altrove, l’impresa vuole occuparsi di estrazione delle biomasse per produrre bietanolo per il mercato dei carburanti. Vuole trasformare le masse vegetali in energia termica ed elettrica. Idea geniale. Difficile che il comune possa partorire un’idea di pari livello. Gli amministratori sono trepidanti. Già pensano all’abbattimento dei costi dell’energia elettrica per i loro concittadini, agli appartamenti riscaldati senza sorta alcuna di inquinamento, alla felicità degli ambientalisti. Ma si sa. Le grandi idee non possono che provocare altre grandi idee. E il comune ne ha una che non riesce a nascondere, e la butta giù in quattro e quattr’otto.
Quando la lady si sarà trasferita l’area lasciata libera dalla signora sarà inglobata nell’espansione urbanistica e sarà destinata ad edilizia residenziale. Detta così sembra niente. Ma se si pensa che si tratta di 70.000 metri quadrati e si riesce un tantino a sognare che magari tutto questo spazio possa essere destinato ad edilizia economica e popolare, solo un nemico della politica non vede quali vantaggi ne derivano. Non è che gli amministratori sono allocchi!
Immaginatevi la scena come se si stesse recitando un copione su un palcoscenico. La lady si sente ed è, perché gliel’hanno sempre fatto fare, la padrona del palco. E’ anche la regista occulta e incalza nel suo dialogo. Lei è disponibile a fare il sacrificio di togliere l’incomodo e andarsene altrove. Ma dove? In un’area già destinata dal piano regolatore generale alle industrie insalubri di prima classe? Neanche per sogno. Adesso, incurante dello strumento urbanistico, vende favori. E’ disposta a trasferirsi “a condizione […] che sia garantita la sufficienza degli spazi al servizio del nuovo stabilimento”. E non basta, vuole anche l’accesso al sistema viario di comunicazione e la disponibilità di acqua, “un costo delle aree da destinare all’insediamento, compatibile con l’equilibrio finanziario dell’investimento”. E neanche questo le basta. Pone un’altra condizione: “che ottenga un beneficio compensativo del sacrificio economico da sostenere per la delocalizzazione”.
A questo punto voi pensate che la signora abbia finito con i suoi lacci e laccioli, con le sue pretese e con la sua arroganza. Neanche per sogno. Pretende, come ulteriore condizione, “che ottenga dagli istituti pubblici e/o privati un finanziamento per realizzare l’investimento”. Capite? Si trasferisce se la finanziano. In soldoni, donna Antonina, con perfetta determinazione e lucidità di mente non solo vuole raggiungere i suoi scopi, ma vuole farlo a spese pubbliche, arrogandosi la prerogativa di scegliere pure l’area di destinazione della sua nuova impresa: le contrade Bosco e Sant’Anna, nei pressi dell’attuale zona industriale. Il tutto in barba alle delibere passate del comune e allo stesso buon senso, se è vero che per soddisfare le sue esigenze occorre variare il Piano regolatore.
Ma c’è qualcosa di più grave alla quale il sindaco, i suoi assessori e il consiglio comunale devono porre mente, se non vogliono avere qualche conseguenza nell’immediato futuro. Può la ditta, in barba al piano regolatore, trasferirsi in un terreno che si sospetta sia di proprietà della signora? Che l’area appartenga o sia nel possesso della lady si legge nella convenzione che ha sottoscritto con i nostri illuminati amministratori: donna Antonina dovrà presentare “il progetto di massima del nuovo stabilimento industriale con i titoli di disponibilità dell’area”. In cambio di questo niente, il Comune si impegna a variare il piano regolatore e poi, cosa inaudita, a sostituirsi alla proprietaria per “richiedere al Consorzio di Bonifica Palermo 2 o all’Ente che dovesse sostituirlo” “l’assenso a fornire al nuovo impianto industriale acqua nella misura non inferiore a 30 litri al secondo ed a ottenere l’autorizzazione al prelievo per un periodo non inferiore a 30 anni”. Se questo non è un reato contro i pubblici interessi, non esistono più i reati.
E qui la classe dirigente che abbiamo ha raggiunto l’acme della sua lungimiranza e della sua vicinanza agli interessi degli agricoltori e dei cittadini. Più in alto non si può andare. Tranne qualche botto di contorno, come succede nei giochi d’artificio sparati per la festa patronale, prima della “masculiata”. Ed ecco una delle tante perline di contorno. La ditta dovrà realizzare una conduttura d’acqua parallela a quella di cui si servirà l’impresa. Ci ho pensato tre notti intere per capire a cosa potesse servire. Ma non ho trovato altra soluzione che questa: venire incontro a qualcuno che da quelle parti ha già fatto richiesta di essere servito. Che sia un ‘pizzo’ in acqua?
Per concludere guardiamo ora le cose in prospettiva. Approvata la direttiva di massima del piano regolatore generale, la distilleria “avanzerà propria proposta di sviluppo dell’attuale area” di via dei Platani, da valutarsi in sede di formazione del nuovo strumento urbanistico. I terreni adibiti all’attuale impianto diventeranno zona residenziale e avranno un indice non inferiore a 1,5 mc/mq. Il colpo è già stato sparato perché la convenzione fissa il tetto minimo, ma non quello massimo. E qui chi ha fantasia e tempo da perdere può sbizzarrirsi come vuole. Un’idea ce la dà nella stessa convenzione la distilleria che dovrà realizzare un’opera d’interesse pubblico da concordare con il Comune. Cosa sarà mai questa ciliegina sulla torta che qualcuno ha messo già sulla tavola? Timeo Danaos dona ferentes, (Temo i Greci anche se portano doni),  dicevano i latini.
Giuseppe Casarrubea

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